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Aree, volumi e spazi: la geometria linguistica di Hjelmslev

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Lorenzo Cigana
Université de Liège

Questo nostro intervento si concentra su alcuni aspetti del pensiero hjelmsleviano e della teoria glossematica in cui è più forte il respiro interdisciplinare che intreccia tra loro almeno i seguenti problemi: a) il ruolo gnoseologico della lingua, b) la modalità in cui la teoria linguistica rappresenta il suo oggetto, c) la questione di stabilire se tale modalità sia iconica, metaforica o costitutiva. Il filo rosso che intendiamo seguire, e che collega i problemi appena menzionati, è l’idea di spazio nella lingua e nella teoria glossematica del linguaggio. Si tratta di un aspetto già studiato approfonditamente da Picciarelli (1999), cui rimandiamo senz’altro. D’altra parte, il motivo per cui intendiamo tornare su tali questioni non è solo per dare continuità a una prospettiva di ricerca sovente trascurata, ma anche perché alcune considerazioni, forse di dettaglio ma proprio per questo importanti, restano in qualche modo pendenti: su di esse vale la pena tornare.

1. Lo spazio del linguaggio

A tutta prima, che l’idea di spazio – la si voglia qualificare come rappresentazione mentale o, kantianamente, come intuizione pura – possa riguardare in qualche misura la lingua è piuttosto controintuitivo, dal momento che essa sembra anticipare il linguaggio, collocarsi al di qua di esso, qualificarsi come prelinguistica: in che senso la lingua ha a che fare in modo specifico con lo spazio? Lo stesso vale, sebbene forse in misura minore, per la linguistica: in fondo, possiamo sfruttare un modello geometrico dal punto di vista metalinguistico, ovvero ricorrere all’idea di spazio come espediente descrittivo. Ma è poi così netta questa distinzione? Non c’è il rischio che qualcosa filtri surrettiziamente dallo strumento di descrizione all’oggetto descritto? E ancora: si tratta di un rischio o piuttosto dell’inevitabile prezzo da pagare della teoresi? E in ogni caso, in che modo la teoria della lingua dovrebbe utilizzare l’idea di spazio?

Ebbene, proprio a partire dalla linguistica degli Anni Trenta si registra il fiorire di un lessico più o meno tecnico, o forse di una vera e propria mitologia, che cerca di tradurre le forze all’opera nel linguaggio nei termini di dinamiche tra campi, di linee di frattura, di spazi di tensione, di pressioni tra categorie, di domini sfumati, di transizioni di frontiere, di intersezioni di dimensioni, piani e assi, e così via. In alcuni casi, gli strutturalisti di prima generazione arrivano a discutere, spesso indipendentemente gli uni dagli altri, proprio dell’appropriatezza di metafore spaziali o matematico-geometriche e della natura stessa di queste – com’è stato riconosciuto in alcuni lavori (Petitot 1990, Skrebtsova 2014, Picciarelli 1999, Diodato 2005, 2006, Vachek 1966). Si può pensare che ciò derivasse dalla forte esigenza, fortemente avvertita dalla linguistica strutturalista degli Anni Trenta, di una solida terminologia scientifica e di modelli teorici condivisi. Ma possiamo anche pensare che sotto sotto agisse l’intento, consapevole o meno, di voler sottrarre i fatti del linguaggio e più in generale i fenomeni di senso al dominio del “soggettivo” e del “fattore umano”, cercando di oggettivizzarli, traducendoli nei termini di una vera e propria fisica delle forze. Come rileva Skrebtsova, un marcato ricorso alle metafore geometrico-spaziali caratterizza il pensiero di Karcevskij, Mathesius, Martinet, ma è in nuce già presente in Saussure (cf. Ducrot 1968: 47, cit. qui in nota 7); in ambito tedesco lo si riscontra in Trier, Weisgerber, Porzig, e più recentemente nel concetto di dominio nozionale nella teoria delle operazioni enunciative di Culioli (1982, cf. La Mantia 2014) o per la semantica dei prototipi di Rosch (Rosch 1973, Lakoff 1987), sebbene la portata della metafora si sia estesa ben oltre la linguistica e abbia raggiunto il dominio delle scienze sociali (si veda, uno per tutti, la nozione di “campo” in Bourdieu 1985).

Skrebtsova non rileva, tuttavia, che tra i linguisti strutturalisti che hanno adottato e sviluppato alcune nozioni o metafore “geometriche”, Louis Hjelmslev occupa una posizione di rilevo. Nella glossematica, infatti, l’idea di spazio viene declinata in almeno tre direzioni: una direzione teorica, una empirica ed una che potremmo chiamare “parateorico”.

La direzione teorica (§ 2) riguarda la concezione spaziale o “posizionale” implicata dal modello stesso di lingua come struttura e come sistema: un teoria è strutturalista se concepisce[1] il proprio oggetto come una struttura, ovvero come totalità in cui le parti non hanno senso se non per la posizione che occupano, per la funzione che svolgono tra loro e rispetto al tutto. Descrivere una qualsiasi unità della lingua significherà descrivere le coordinate che la individuano all’interno del sistema di cui fa parte, il nodo sulla rete, il punto nello spazio; quali definizioni permettono di descrivere la lingua in questi termini?

La direzione empirica (§ 3) riguarda il significato fondamentale che secondo la cosiddetta “ipotesi localista” (cf. Picciarelli 1999: 32 sgg.) di cui la glossematica si fa portavoce, soggiace alla categoria grammaticale dei casi, ovvero l’idea di “relazione”. Ma cosa significa dire che il significato dei casi grammaticali si lascia spiegare in termini direzionali? E che implicazioni ha ciò sul piano della teoria della conoscenza?

Infine, la direzione “parateorica” (§ 4) riguarda il problema della raffigurazione grafica specifica della glossematica, ovvero quel corredo di soluzioni grafiche, schemi, diagrammi, modelli che affiancano le definizioni verbali date nella teoria (su questo cf. Badir 2005, 2008, 2009) come trasposizioni visuali di queste. In più, esse dovrebbero permettere un colpo d’occhio sintetico dell’ossatura dell’oggetto, proprio come le corrispettive raffigurazioni dei rapporti di parentela dell’antropologia (cf. Bertin 1967 in Benveniste 2001) o le strutture ad albero proposte dalla teoria generativo-trasformazionale.

Questi tre aspetti sono certamente legati tra loro, ma il loro rapporto va articolato attentamente, onde evitare alcuni rischi interpretativi che abbiamo sottolineati altrove[2]. Vediamo come.

2. Struttura, funzione e posizione

Il primo aspetto non è specifico della teoria hjelmsleviana, anzi si può dire che la connotazione spaziale supportata dall’idea di “posizione” sia propria di tutto lo strutturalismo linguistico. Dire che la lingua è un sistema costituito da rapporti, in cui le grandezze che vi entrano non sono definite tanto dalle loro qualità concrete, positive (o dalla cosiddetta “sostanza”) quanto soprattutto dal loro reciproco opporsi (cioè dalla loro “forma”), significa concepire la lingua come un intreccio di luoghi vuoti fondato su una vera e propria differenza di potenziale. Essendo la lingua una “struttura”, ovvero una totalità il cui valore supera la somma delle parti, le unità della lingua assumono senso solo in virtù della posizione che esse rivestono all’interno del sistema, le une rispetto alle altre. Il principium individuationis delle unità linguistiche è dunque, almeno idealmente, cartesiano: descrivere un’unità linguistica (un morfema, un fonema, una sillaba, e così via) in una data lingua significa localizzarla, ovvero stabilire il reticolo di coordinate che la individua all’interno della totalità in cui rientra (la categoria grammaticale di caso, la categoria delle vocali, la classe delle sillabe che possono occorrere in posizione iniziale di parola, e così via), e di questo rispetto alle altre totalità (le altre categorie nominali, la categoria delle consonanti, l’insieme delle posizioni sillabiche, ecc.). Per spiegare meglio questo stato di cose, Hjelmslev sceglie un’unità linguistica particolare, come la r francese: si può dapprima definire la r francese come una “vibrante sonora rotata alveolare” o come “fricativa sonora uvulare” (Hjelmslev 1988: 146), cercando di esaurire tutti i tratti positivi che si riscontrano nella sua pronuncia standard. Ma un tale punto di vista, se spiega come essa sia pronunciata, non spiega perché essa lo sia; in più, qualsiasi pronuncia particolare che variasse qualche tratto di questa specifica r porterebbe alla strana conclusione per cui in realtà ci troviamo all’interno di un’altra lingua: “qualunque cambiamento della definizione data porterebbe a un cambiamento di lingua, e il francese pronunciato con una r differente, ad esempio retroflessa, faringale, fricativo-palatale, sarebbe una lingua diversa dal francese che conosciamo” (Hjelmslev 1988: 146). Immaginiamo lo stesso problema moltiplicato per tutte le vocali di una lingua: avremmo tante lingue quante sono le pronunce – il che, se da un lato potrebbe avallare il misticismo di alcune interpretazioni, dall’altro vanificherebbe 1) l’idea di lingua come istituzione collettiva biplanare e 2) la possibilità stessa di una scienza della lingua. D’altra parte, possiamo concepire la r francese come una “vibrante che ammette come variante libera la pronuncia di fricativa posteriore” (Hjelmslev 1988: 145). Così definita, essa include già un momento formale – per esempio una classe di varianti; inoltre, la sua definizione positiva è ridotta per così dire al minimo: “l’r francese si definisce adesso come un’entità oppositiva e relativa sì, ma munita di una qualità positiva: per le sue vibrazioni si oppone alle non-vibranti; per la sua articolazione posteriore si oppone alle altre fricative; per la sua pronuncia fricativa si oppone alle occlusive […]. D’altra parte, le qualità positive che la definizione attribuisce alla r francese sono ridotte al minimo differenziale: per questo essa non comporta alcuna precisazione riguardo al luogo di articolazione” (Hjelmslev 1988: 146). Ci siamo mossi di un passo in direzione dell’essenza linguistica dell’unità considerata, ma ancora essa ci sfugge. Per raggiungerla, secondo Hjelmslev è necessario abbandonare i criteri di pronuncia e adottare criteri formali, di posizione: l’r francese è tale perché (1) è una consonante, (2) può occorrere indifferentemente in posizione sillabica iniziale o finale, (3) è prossima alle vocali e può occorrere in prima posizione in un gruppo finale, (4) contrae commutazione con altri elementi delle stesse categorie (come l). Rispetto a tale definizione, la r rimane tale anche se pronunciata in modi differenti: “ciò che la distingue dagli altri elementi non è la sua qualità propria e positiva, ma semplicemente il fatto che non si confonde con essi” (Hjelmslev 1988: 144-145). Ciò significa che il sistema profondo della lingua, ovvero ciò che fa di una lingua quella lingua, rimane tale a prescindere da fatto che essa si realizzi in una materia fonica o grafica, in un linguaggio di gesti, in un sistema di segnali con bandiere, nell’alfabeto morse, e così via. Il problema dell’identità delle grandezze linguistiche coincide dunque con il problema di stabilire il ruolo di tali grandezze nel sistema, cioè la loro funzione o, in termini spaziali, la loro posizione.

La suggestione spaziale implicata in questa idea traspare fin dalla metafora saussuriana della lingua come gioco di scacchi, il cui principio fondamentale è il rapporto di distribuzione dei pezzi sulla scacchiera. Oswald Ducrot[3] giustamente ricorda, inoltre, che Saussure stesso aveva adottato l’idea di lingua come sistema di segni intesi come spazi fonetici e semantici tra loro concorrenti: all’interno della lingua, ogni segno si ritaglia un dominio la cui limitazione è data solo ab externo, cioè dalla presenza degli altri segni. D’altra parte, si sarebbe in errore nel ritenere che le frontiere tra i segni siano assolutamente sclerotiche, rigide: al contrario, nella lingua vige uno stato di sincronica[4] fluidità e i limiti che marcano il dominio di ciascun segno sono generalmente permeabili. La metafora delle zone segniche implica che tra queste zone vi sia sempre una certa sovrapponibilità che viene assunta per principio in quanto diretta espressione dei fenomeni tipici della struttura della lingua (si pensi ai casi di sinonimia, omonimia, neutralizzazioni, fusioni, implicazioni ecc.), ma che risulta difficilmente traducibili in termini grafici.

Ora, all’interno di questa grande metafora geometrico-spaziale, la glossematica apporta una sua propria, specifica “mitologia”. Già nel 1934, durante il ciclo di conferenze che sarebbero state pubblicate postume con il titolo di Sprogsystem og Sprogforandring (SoS), Hjelmslev descrive la lingua come una serie di settori concentrici, dal più interno (il sistema grammaticale) al più esterno (i sistemi fonetico e semantico), a loro volta organizzati in zone nucleari o centrali, linguisticamente più profonde (e antropologicamente o cognitivamente più pregnanti), astratte e per questo frequentemente irregolari, e zone periferiche, più superficiali, concrete e regolarizzate, stabilizzate dall’uso cosciente dei soggetti parlanti[5]. Inoltre, se scorriamo il testo che dovrebbe rappresentare la versione formalizzata della teoria del linguaggio proposta da Hjelmslev, ovvero il Résumé di una teoria del linguaggio (TLR), vedremo che le definizioni ivi contenute sono in larga parte termini carichi di connotazioni topologiche, come per esempio: “ampiezza” (def 184), “area” (def 87), “campo” (def 72), “centrale” (def 254), “centrifugo” (def 331), “centripeto” (def 332), “configurazione” (def 77), “dimensione” (def 88), “direzione” (def 220), “esterno” (def 166), “interno” (def 165), “lato” (def 270), “linea” (189), “mappatura” (151), “marginale” (def 246), “periferico” (def 242), “piano” (def 25), “sezione” (def 124), “sovrapposizione” (def 105). Ora, la questione è di stabilire se la metafora spaziale suggerita da questi termini sia costitutiva, ovvero iconica, oppure solamente accessoria. Innanzitutto, l’intenso lavoro di riformulazione dei termini che Hjelmslev intraprende fin dal 1936, lavorando fianco a fianco con Uldall, e che giunge alla sistemazione relativamente stabile (seppur non conclusiva) del Résumé ci sembra possa dimostrare che una tale terminologia non è scelta a caso: la metafora spaziale è ritenuta particolarmente adatta all’oggetto che si tratta di costituire (la struttura generale delle semiotiche). D’altra parte, i termini non sono stati scelti in base al significato spaziale che normalmente si accorda a questi termini: una loro ridefinizione tecnica sarebbe stata, forse, inutile. L’interpretazione spaziale supportata da queste definizioni sarebbe appunto un elemento connotativo, una sfumatura che, per quanto legittima e dunque presente nella teoria, non dovrebbe essere considerata costitutiva, essenziale, per quest’ultima. Prova ne sia che nessuno dei termini citati più sopra riceve una definizione geometrica: nessuno dei definientes di tali termini è collegato esplicitamente al dominio comunemente chiamato “geometria”, ovvero al sistema di definizioni che costituisce tale disciplina. Così, per esempio, per “lato” non s’intende un segmento di un poligono, ma un “membro di una paradigmatica”; il “piano”, che in geometria è un concetto primitivo, cessa di esserlo nella glossematica, in cui assume il significato tutt’altro che intuitivo di “componente di una semiotica”; per non parlare dell’“area”, che da misura dell’estensione della superficie diviene grosso modo la zona concettuale a partire da cui le opposizioni semplici, contrarie e contraddittorie assumono senso. Si tratta allora di etichette. Queste nozioni parlano alla nostra immaginazione, fanno parte del bagaglio di informazioni con cui ci apprestiamo a entrare nel dominio della teoria glossematica del linguaggio, ma, una volta penetrativici, dobbiamo per forza spogliarcene, o meglio trasformarle, accettando che il loro significato sia completamente differente dalla comune accezione che riserviamo loro nella nostra esperienza, derivi essa dal quotidiano o dalla nostra competenza di matematici o geometri. Semplicemente, si tratta di microlingue differenti. Eppure, ancora una volta, questa spiegazione non convince: perché scegliere proprio questi termini? Una domanda legittima, tanto più che la glossematica dà prova di un’inventiva notevole quando si tratta di escogitare nozioni e definizioni che evitino eventuali ambiguità o conflitti con termini tecnici di altre teorie[6], arrivando talvolta a neologismi del tutto criptici[7]? Non ci sono soluzioni facili: un termine tecnico sarà necessariamente accompagnato da una serie di connotazioni, alcune delle quali derivano dalla nostra esperienza di tutti i giorni, dai nostri studi pregressi, dalla cultura in cui siamo inseriti, e così via. Queste associazioni non sono eliminabili, possiamo solamente farne una temporanea “epoché”, sospendendo la loro validità a livello di significati primari.

Allora, a essere interessante non è più la questione di stabilire se l’idea di spazio veicolata da questi termini sia metaforica o costitutiva, ma è l’alternativa stessa, il modo in cui questo problema si pone e che vale anche per altre “fluttuazioni interdisciplinari” come ad esempio il conflitto tra punto di vista linguistico e punto di vista logico nella definizione di “funzione” (cf. Cigana 2016). Ciò significa che quando operiamo all’interno della teoria del linguaggio chiamata “glossematica”, operiamo con una batteria di categorie o di concetti specifici che, proprio per via della loro specificità, si pongono su un livello fortemente astratto. Gestirli senza tentare di ricondurli ai termini primitivi da cui dipendono è difficile: una padronanza di tale lessico richiederebbe almeno che questo entrasse lentamente nell’uso scientifico diffuso, cioè che vi fosse accordo nella comunità scientifica e che si sviluppasse una vera e propria tradizione basata sull’uso continuo e condiviso di tali termini[8]. L’intuizione, allora, accorre in nostro aiuto: di fronte alla necessità di utilizzare nozioni così astratte e lontane dal senso comune, adottiamo implicitamente le connotazioni suggerite dalle stesse nozioni come supporto concreto per la mente, come spazio analogico di rappresentazione. Questo ci aiuta a ricondurre il discorso a una dimensione in cui possiamo “visualizzare” e “manipolare” i termini attraverso le rappresentazioni collaterali che essi ci forniscono. Così siamo legittimati a raffigurarci i piani della semiotica grosso modo come due superfici in cui si essa si divide, da un lato l’espressione e dall’altro il contenuto. Allo stesso modo, siamo legittimati a concepire intuitivamente il lato come una parte, o un “aspetto”, del poligono costituito dalla semiotica stessa. E siamo legittimati a concepire l’“area” come una zona all’interno della superficie (sublogica) su cui s’innestano le opposizioni che governano i rapporti tra le unità della lingua stessa. E così via per tutti i termini menzionati. E non solo: per via dell’ambiguità costitutiva della nozione di “funzione”, essa va intesa a partire da un significato intermedio che includa sia il significato di “rapporto” che quello di “ruolo” e che partecipi dell’uno e dell’altro – come Hjelmslev del resto esplicitamente suggerisce (cf. FTL: 37-38). In definitiva, ci è sempre possibile concepire implicitamente la lingua come un’entità spazializzata, gestendo i termini tecnici come componenti di questa, al fine di farci un’idea generale di come la lingua venga articolata dalla teoria stessa. Questo ha naturalmente un rischio: raffigurandoci mentalmente la lingua come un’entità spazializzata, e manipolando idealmente i suoi componenti (i “piani”, “lati”, “aree”) come se davvero le grandezze che ne fanno parte fossero le entità geometriche suggerite, facciamo appello alla nostra esperienza implicita in fatto di operazioni di manipolazione possibili (suddivisioni, partizioni, mappature, distribuzioni, scambi commutativi, ecc.). Questo può generare interpretazioni fallaci, che in realtà non sono supportate dal significato logico-concettuale specifico dei termini: un esempio classico di tale “precomprensione” riguarda il carattere lineare del significante evocato dal concetto di “sintagma” o “processo”. In entrambi i casi, si ha a che fare con la struttura profonda del testo, ravvisata tanto da Saussure che da Hjelmslev nei rapporti sintagmatici o in praesentia che uniscono le parti (parole, sillabe, vocali e consonanti, e così via). L’esecuzione dell’atto di parole, dice Saussure, si sviluppa naturalmente nel tempo: si tratta infatti di pronunciare, articolandoli uno dopo l’altro, i componenti del sintagma in questione. Eppure, sostiene Hjelmslev, quando si tratta di arrivare alla forma, notiamo che questo principio non regge. Esso si fonda su un intreccio intuitivo, e surrettizio, tra tre distinzioni eterogenee: 1) tra struttura virtuale e sua realizzazione concreta, 2) tra sistema e processo, 3) tra significato e significante. Ora, prosegue Hjelmslev, se si analizza la sola idea di “sintagma” o di “processo”, fondata sul solo rapporto logico espresso dalla funzione “e…e”, si noterà che nulla in essa implica una spazializzazione o una distribuzione lineare tra i termini che contraggono questa funzione. Siamo legittimati a ricorrere alla rappresentazione lineare solo quando si tratta di analizzare il modo in cui la struttura virtuale della langue si realizza concretamente, nella sostanza. Donde la critica, da parte di Hjelmslev, alla nozione di “asse delle successività” con cui Jakobson riformula la teoria saussuriana[9]. La rappresentazione spaziale della linea è dunque solo un appiglio per visualizzare i rapporti sintagmatici, ma può essere sviante quando si considera che il fondamento logico non riguarda la distribuzione delle grandezze sintagmatiche, ma solo la loro coesistenza: la nostra mente, facendo leva sulle rappresentazioni spaziali suggerite dalle definizioni (o da una certa vulgata interpretativa), costruisce un modello visivo dell’oggetto della teoria che tuttavia può obbedire a regole differenti da quelle prescritte dalla teoria stessa.

Ancora una volta, tuttavia, questo rischio interpretativo non basta per liquidare la questione della spazializzazione delle grandezze linguistiche come una mera visualizzazione: non si tratta semplicemente di un pericolo del pensiero analogico che suggerisce di trattare grandezze logico-concettuali come grandezze spazializzate. Il rischio mostra solo la necessità di costruire modelli adeguati alle indicazioni che riceviamo dalla teoria, senza lasciare che il sottile equilibrio tra la dimensione logica e quella geometrico-spaziale cessi di essere tale. In fondo, abbiamo visto più sopra quel reticolo di funzioni, che secondo l’impostazione strutturalista costituisce la natura dell’oggetto “lingua”, supporti un’interpretazione spaziale, topologica, e una fenomenologica, coesistenti: al senso logico di “funzione” come rapporto si affianca un senso fenomenologico di “ruolo” ed un senso topologico di “posizione”. Ciò significa che una grandezza linguistica è definita dal fatto di “contrarre una funzione”, di “svolgere un ruolo”, di “occupare una posizione”. Allo stesso modo, si può parlare della “consonante” come “costituente marginale” intendendo, da un lato, che le consonanti si collocano posizionalmente ai margini delle vocali, che costituiscono invece il nucleo centrale della sillaba, e dall’altro che nella sillaba le consonanti presuppongono logicamente le vocali come condizione costante. Un’interpretazione fenomenologica possibile della funzione di commutazione sarà quella di “confronto tra scambi” – perché queste sono le operazioni intenzionali che esprimono in concreto, sul piano pratico (e grazie a cui possiamo riconoscere) la funzione di relazione tra due correlazioni sui due piani della lingua definita appunto commutazione. Sempre giocando tra questi punti di vista potremo dire che le funzioni si lasciano interpretare spazialmente come vettori (Rajnović 2003), e le posizioni si lasciano interpretare logicamente come intersezione di funzioni. E così via.

Ora, se queste differenti classi d’interpretazioni coesistono, non sono tuttavia perfettamente equivalenti: tra queste possibilità, Hjelmslev da priorità al senso logico, che viene assunto nella teoria in quanto si basa su un minor numero di premesse che non le altre definizioni (FTL: 38). Ciò tuttavia non significa che queste ultime vengano escluse dalla teoria: esse passano solo in secondo piano, sullo sfondo, pronte ad emergere in corrispondenza di opportune sollecitazioni. E le sollecitazioni non sono costituite solo da questo intervento (come speriamo che esso sia), ma proprio dagli altri due aspetti dell’idea di spazio cui conviene ora avvicinarci.

3. La grammaticalizzazione dello spazio

Abbiamo visto che la spazializzazione (che è una sorta di ipostatizzazione) dell’oggetto che la teoria veicola non è accessoria, metaforica, non è un mero espediente di visualizzazione legato ad un bisogno cognitivo; essa riflette uno sforzo concreto di modellizzazione da parte della teoria stessa: quello che la teoria del linguaggio intende proporre è un metodo di analisi della semiotica insieme ad una rappresentazione di questa come intreccio di rapporti qualitativi tra termini. Non è un caso che il termine primitivo di “descrizione” sintetizzi proprio questo doppio aspetto: la descrizione è allo stesso tempo una predicazione di qualità relative ad un oggetto già presente alla coscienza, e dall’altro è la restituzione di tale oggetto alla coscienza, la “presentificazione” di esso alla coscienza stessa. In quest’ ultima accezione, si può dire che essa “faccia”, “costruisca”, l’oggetto, dal momento che la descrizione è tale solo a partire da alcuni criteri fondamentali (il “punto di vista”) che essa stessa fissa come pertinenti. Fin qui, tuttavia, la questione si è mantenuta sul solo livello epistemologico, riguardante cioè la teoria. Vi è però un punto, nel modello di lingua proposto dalla teoria glossematica, in cui l’idea di spazio sembra provenire non più dalla teoria ma dall’oggetto stesso, in cui cioè la spazializzazione sia imposta alla teoria dalla lingua stessa: si tratta dell’analisi del contenuto delle categorie morfologiche generali di caso, di persona e di diatesi, discussa nell’opera La categoria dei casi (CdC) e il saggio Per una teoria dei morfemi (Hjelmslev 1991: 97 sgg.).

È bene chiarire subito la posta in gioco. Per Hjelmslev la “morfologia” ha un ruolo più ampio della sua tradizionale definizione per opposizione alla sintassi (FTL: 91), che è inclusa in essa. Intesa in termini tecnici, si tratta di quel livello della lingua che ha a che fare con le categorie dei cosiddetti “esponenti” chiamati a modificare la base tematica (l’insieme costituito dalle radici e dagli affissi, l’altra grande parte della grammatica) e a plasmare il piano del contenuto linguistico secondo un’articolazione finita di unità. Nella prospettiva di Hjelmslev, la morfologia rappresenta il dominio più interno della lingua, il cuore del sistema in cui essa mette in gioco i propri strumenti per dare forma alla molteplice varietà dei nostri vissuti, alle nostre rappresentazioni, rendendoli condivisibili e comunicabili – un aspetto fenomenologico (per non dire cognitivo) della teoria glossematica su cui abbiamo già richiamato più volte l’attenzione (Cigana 2014a, 2014b).

È bene chiarire subito la posta in gioco. Per Hjelmslev la “morfologia” ha un ruolo più ampio della sua tradizionale definizione per opposizione alla sintassi (FTL: 91), che è inclusa in essa. Intesa in termini tecnici, si tratta di quel livello della lingua che ha a che fare con le categorie dei cosiddetti “esponenti” chiamati a modificare la base tematica (l’insieme costituito dalle radici e dagli affissi, l’altra grande parte della grammatica) e a plasmare il piano del contenuto linguistico secondo un’articolazione finita di unità. Nella prospettiva di Hjelmslev, la morfologia rappresenta il dominio più interno della lingua, il cuore del sistema in cui essa mette in gioco i propri strumenti per dare forma alla molteplice varietà dei nostri vissuti, alle nostre rappresentazioni, rendendoli condivisibili e comunicabili – un aspetto fenomenologico (per non dire cognitivo) della teoria glossematica su cui abbiamo già richiamato più volte l’attenzione (Cigana 2014a, 2014b).

Le categorie morfologiche in effetti costituiscono la “rete” che, stesa sulla nostra esperienza, filtra e plasma quest’ultima secondo la propria forma: ogni lingua organizza in modo diverso un set profondo di categorie generali (nominali e verbali, ovvero rispettivamente caso, articolo, comparazione, numero-genere da un lato, e modo, tempo, aspetto, diatesi, persona, enfasi dall’altro) condivise da tutte[10]. Ogni categoria è definita in un doppio momento: formalmente, dai fatti di funzione che permettono a ciascuna categoria di ritagliarsi un dominio nella struttura della lingua; e semanticamente, dai diversi significati che è possibile associare alla categoria generale e alle diverse articolazioni che si realizzano nelle singole lingue – ovvero dalla natura di quello stesso ritaglio[11]. Così, ad esempio, la categoria morfologica generale di comparazione è riconoscibile per il fatto di costituirsi per “direzione nessica eteronessuale”[12], e per il fatto di supportare una sostanza del contenuto specifica (un’idea latente del linguaggio, nel senso di Bréal) – l’idea platonica di “intensità”. Di conseguenza, ogni volta che facciamo ricorso alla categoria di comparazione nella nostra lingua, stiamo plasmando il nostro atto di parole secondo quelle regole che, dal punto di vista discorsivo, formano e presentano (a prescindere dal fatto che ne siamo coscienti) all’interlocutore un universo di senso in cui si istituisce un confronto tra gradienti di intensità tra due o più realtà legate funzionalmente rispetto ad una data qualità. Ma non solo: il fatto stesso che per esprimere una data relazione semantica noi dobbiamo adottare una convenzione sintagmatica (morfosintattica) precisa, rientra nel modo in cui le categorie grammaticali organizzano il pensiero e le sue operazioni. In effetti, secondo Hjelmslev il potere formativo delle categorie morfologiche si estende su un doppio livello: (1) quello “cognitivo”, relativo alla discorsivizzazione delle strutture linguistiche e all’organizzazione dei dati e dei vissuti esperienziali, (2) e quello “metacognitivo”, relativo al modo in cui pensiamo il pensiero – esempio principe di questo tipo d’influenza è proprio la categoria di caso.

(1) Il primo livello corrisponde in parte a quella che Bühler chiamava la funzione di rappresentazione della lingua, salvo che in questo caso la scommessa è più profonda: le categorie morfologiche orientano, modificano e plasmano la nostra esperienza, avvicinandosi molto ad una sorta di archetipi collettivi. E dal momento che esse sono pensate non come riflesso verbale delle rappresentazioni mentali, ma come vero e proprio principio di formazione di queste, ad esse spetta il compito di coordinare in modo sovraindividuale dati provenienti da qualsiasi aspetto del vissuto fenomenologico dell’uomo: il linguaggio esprime e dà forma “al contenuto della coscienza in generale, non solamente della coscienza intellettuale, ma anche della coscienza affettiva, dell’emozione e della volizione” (PGG: 20, n. 46), ivi inclusa la coscienza percettivo-corporea. Dal momento che dal punto di vista linguistico prima delle differenze introdotte dalla lingua il vissuto va considerato come un continuum amorfo, a rigore la distinzione che abbiamo appena proposto non è pertinente. L’idea di relazione andrà dunque presa in senso steinthaliano come una rappresentazione di rappresentazioni (PGG: 22, n. 51): essa agisce come un catalizzatore capace di articolare subconsciamente i contenuti di coscienza a prescindere dalla loro natura. Tanto più che, proseguendo lungo questa direzione, la stessa barriera tra fisico e mentale viene meno: secondo Hjelmslev, nella lingua non esiste alcuna separazione ontologica prestabilita e insuperabile tra oggetti astratti e oggetti concreti, dunque nella scienza del linguaggio è opportuno rifiutare siffatta distinzione insieme all’impostazione riduttivista che ne deriva[13]. Come dirà esplicitamente, “il contenuto del linguaggio è il mondo stesso che ci circonda […] la lampada che è sul mio tavolo è un significato particolare della parola lampada; io stesso sono un significato particolare della parola uomo[14] (cf. Hjelmslev 1970: 138). Ciò significa, in ultima analisi, porre la modalità di conoscenza come costitutiva dell’oggetto di conoscenza stesso, qualunque esso sia[15].

2) Ora, tra le idee linguistiche fondamentali (o “sematemi”) associate alle categorie morfologiche, quella associata alla categoria di caso è proprio l’idea di relazione: “Il fenomeno soggettivo[16] designato da tale categoria è la concezione spaziale; tale concezione è applicata dal soggetto parlante ai diversi ordini del fenomeno oggettivo, che si tratti dello spazio, del tempo, della causalità logica o della rection sintagmatica” (CdC: 120). In base alla già citata ipotesi del localismo, “si sostiene che il principio di direzione si manifesta su due piani differenti, su un piano astratto e su un piano concreto” (CdC: 109), ovvero relativamente ai rapporti logico-grammaticali e a quelli spaziali – due aspetti che, così, cessano di opporsi in base alla loro presunta consistenza ontologica: “tutti i casi sono in una certa misura applicabili nello stesso tempo a relazioni concrete o locali e a relazioni più astratta di ordine grammaticale o ‘logico’, e che in ciò non vi è alcuna differenza essenziale” (CdC: 150). Il significato di relazione proprio della categoria di caso non viene ristretto solamente alle rappresentazioni veicolate nel messaggio, ma anche alle (meta)rappresentazioni che vi facciamo delle strutture grammaticali stesse in termini di “funzioni”, cioè di rapporti spazializzati. Come a dire che, poiché la categoria di caso si estrinseca attraverso relazioni morfosintattiche specifiche, queste non sono che un altro aspetto della categoria. Le stesse funzioni che realizzano la dipendenza casuale e che a noi sembrano pure forme prive di contenuto, rapporti convenzionali puramente meccaniche, norme sintattiche che in sé non dicono nulla (come i rapporti di accordo o di reggenza), in realtà rientrano nel valore stesso della categoria, realizzandone la forma del contenuto:

“In tutte le lingue vi è una rection casuale la cui ragione è la parentela semantica esistente tra il termine reggente e il morfema casuale del termine retto, e che, dall’altra, il morfema casuale implica un significato proprio indipendente dai fatti di rection […]. La rection casuale non è un fatto meccanico; essa si spiega attraverso il valore dei casi in questione. […] Tutto quello che resta del principio invocato da questa teoria è il fatto che la prima dimensione casuale, quella di direzione, agisce in maniera sintomatica sulle rection sintagmatiche” (CdC).

In altre parole, per Hjelmslev anche il modo in cui si esplicita la funzione della reggenza dipende dalla categoria di caso stessa, o, per dirla in termini tecnici, i fatti sintagmatici risultano plasmati dai fatti paradigmatici (morfologici):

Prendiamo un sintagma che per la sua estensione ricopre una frase nel senso classico, come
rosaestpulchra
Abbiamo riportato le rections in cui sono implicati fatti di caso. Le frecce al di sopra della linea indicano le relazioni puramente casuali. Le frecce al di sotto indicano le relazioni in cui i casi sono implicati in connessione con altre categorie morfematiche (persona, numero e genere). È possibile qui osservare un gioco evidente di allontanamento e di avvicinamento (CdC: 135).

Riassumiamo. L’idea di relazione, intrinseca della categoria di caso, emerge anche nell’apparato sintagmatico, ovvero nel gioco tra termine reggente e termine retto: ciò significa che il sintagma e le sue regole di costruzione spazializzano il contenuto astratto della categoria di caso. Nell’intera teoria di Hjelmslev, questo è il luogo in cui emerge con più chiarezza una suggestione hegeliana: ovvero l’idea che un elemento astratto si fa concreto in virtù della sua stessa natura. Ora, se l’idea di relazione della categoria di caso si declina in termini spaziali, coglibili concretamente, ciò significa che alla teoria spetta il compito di fornirne una rappresentazione quanto più adeguata possibile, e questo è possibile sfruttando metalinguisticamente un’idea fornita dalla lingua stessa. Ecco che, di colpo, l’impianto nominalista della glossematica diviene improvvisamente realista: la rappresentazione grafica delle funzioni è il modo in cui la teoria può cogliere la più vera natura delle funzioni stesse della lingua. In questo senso, la schematizzazione (grafica) delle funzioni linguistiche non è più uno stratagemma esterno, arbitrario del linguista, attraverso cui la teoria si impone sull’oggetto, ma diviene il modo in cui l’oggetto stesso si lascia cogliere, e chiede alla teoria di essere colto: come afferma giustamente Picciarelli, “il localismo non pertiene solamente alla struttura linguistica, ma anche al modello che pretende di rappresentarla” (Picciarelli 1999: 33). Noi possiamo rappresentarci metalinguisticamente la lingua come spazializzata perché la lingua stessa supporta, almeno entro certi limiti, questa possibilità. Una tale prospettiva abbandona decisamente l’idea per cui la lingua esprime uno stato di cose, per abbracciare l’idea per cui la lingua forma uno stato di cose o la sua rappresentazione.

Questa concezione, d’altra parte, pone dei problemi piuttosto gravi. Innanzitutto, è ovvio che l’apparato funzionale della glossematica (ovvero le diverse funzioni di interdipendenza, determinazione, costellazione moltiplicate per i due diversi punti di vista, sintagmatico e paradigmatico) è costruito dalla teoria: tali funzioni rappresentano una mossa epistemologica, propria del metalinguaggio, mentre la categoria di caso è una categoria morfologica generale a fianco di altre. Se la categoria dei casi orienta la nostra stessa concettualizzazione (anche puramente epistemologica) delle relazioni, come alcuni punti nell’argomentazione di Hjelmslev fanno effettivamente credere, questo significherebbe

a) che vi sarebbe un’asimmetria nel sistema delle categorie morfologiche, dal momento che la categoria di caso dovrebbe influenzare il metalinguaggio utilizzato per descrivere le altre categorie morfologiche;

b) che la categoria di caso dovrebbe essere universale;

c) che ogniqualvolta ci collochiamo sul piano metalinguistico, epistemologico, e ci rappresentiamo mentalmente le funzioni in termini di rapporti spaziali, in questo processo interviene in qualche modo all’idea di caso, ad una forma casuale. Qualunque forma di modellizzazione spaziale, dovrebbe cioè far leva sul linguaggio e più precisamente sulla categoria morfologica di caso;

d) più in generale, che qualsiasi forma di concettualizzazione dipende in qualche misura dalla struttura della semiotica onniformativa per eccellenza, la lingua storico-naturale.

Difficile riuscire a dimostrare queste ipotesi, che riposano in parte su una scommessa teorica, in parte su assunzioni di metodo, in parte su evidenze empiriche. Di seguito le discutiamo brevemente, prima di passare all’ultima questione.

(a) In realtà, non solo il significato generale (sematema) di caso ma tutti i significati profondi delle categorie morfologiche, ovvero le quattro idee platoniche discusse in Hjelmslev (1991: 102), sono concepiti come talmente astratti da poter rappresentare delle operazioni cognitive fondamentali, di carattere logico-psicologico, dunque certo, anche metalinguistiche: le idee di relazione, intensità, consistenza e realtà, insieme alle loro specifiche articolazioni, forniscono delle coordinate dotate di un valore totemico che organizzano vissuti differenti, su livelli diversi, dalle proporzioni spaziali (caso) e relazionali (diatesi), alle rappresentazioni ontologiche (le sostanze metafisiche distinte in base alle opposizioni concentrato vs. diffuso, massivo vs. puntuale della categoria di numero-genere; la reificazione dell’azione e del tempo secondo i criteri di limitato vs. illimitato supportati della categoria di aspetto), ai rapporti qualitativi (comparazione), l’attribuzione di un senso di realtà o irrealtà (articolo e modo), e così via[17]. La griglia delle categorie linguistiche costituisce dunque un punto d’indagine centrale per osservare le istituzioni del pensiero, semplicemente perché la lingua stessa è – nell’ipotesi hjelmsleviana – quella “istituzione zero” che permette di rappresentarsi le altre stesse istituzioni. In più, dal punto di vista gnoseologico, se volessimo tentare un confronto con la teoria kantiana della conoscenza, dovremmo dire che le categorie linguistiche sono più vicine allo schematismo che non alle categorie dell’intelletto: esse costituiscono il momento di articolazione tra le intuizioni pure e le classi conoscitive del pensiero che risulta, a questo punto, intimamente linguisticizzato. Questo è quanto sembrano suggerirci le parole del linguista danese: “qualunque operazione poggia in ultima analisi sulle concezioni di spazio e di tempo. L’operazione intellettuale consiste nel ricondurre i fatti osservati nel mondo oggettivo a formule spaziali e temporali” (CdC: 120; c.vo ns.).

(b) Questo punto riguarda in realtà il problema della differenza tra “generale” e “universale” nella glossematica. Basti dire che le categorie sono dette “generali” proprio perché si ritrovano in tutte le lingue, sebbene ciascuna lingua possa configurarle in modo differente, non solo dal punto di vista interno (il greco suddivide la categoria di caso in modo diverso dal latino) ma anche in relazione alle altre categorie, sopprimendone alcune ma in realtà “convertendole”, per esempio “lessicalizzandole” (come per il sistema delle preposizioni che tipicamente rappresentano la categoria dei casi allo stato convertito)[18].

(c-d) Queste due ipotesi riposano, come ricordato, sul principio dell’onniformatività della lingua. È in effetti la teoria stessa a costruire la lingua come tale, nel momento in cui si definisce “lingua” quella “paradigmatica di una semiotica denotativa i cui paradigmi sono manifestati da tutte le materie” (TLR, Def 38), ovvero, detto in parole povere, il sistema più versatile di tutti:

“Chiunque studi il contenuto significativo delle categorie della lingua non può fare a meno di rendersi conto che tali categorie costituiscono in qualche modo delle categorie epistemologiche. Tra le categorie della lingua e quelle del pensiero c’è un’intima relazione. Il che non vuol dire che vi sia identità. Tutto quello che si può pretendere anticipatamente è che la lingua costituisce in ultima analisi un sistema epistemologico, e che di conseguenza i concetti più profondi della lingua sono in linea di principio della stessa natura degli ultimi concetti dell’analisi logica” (CdC: 111).

Certo, un sistema epistemologico a fianco di altri, ma comunque il più estensivamente utilizzato, di cui possiamo forse narcotizzare la pertinenza a vantaggio di codici, criteri e scopi differenti, ma mai eluderlo completamente o prescinderne del tutto.

“La forma del linguaggio è una forma categoriale […]. Ciò non significa ancora che la forma categoriale di cui si tratta preesista al linguaggio. Al contrario, significa che c’è una forma specifica di ordine categoriale che viene rivelata attraverso il linguaggio, e solo attraverso questo. Sarebbe azzardato ed inutile pretendere a priori che le categorie rivelate attraverso il linguaggio differiscano per definizione da qualsiasi categoria epistemologica individuata attraverso speculazioni non-linguistiche. È almeno già molto verosimile che le speculazioni epistemologiche e le tavole categoriali individuate attraverso queste siano in parte costituite sui fatti linguistici” (CdC: 132).

Queste considerazioni complessive ci portano a credere che per la glossematica sia centrale proprio quello che Petitot-Cocorda le critica come debolezza (Petitot 1990: 222): una semiotizzazione dello spazio, laddove per il programma di morfogenesi del senso inaugurato da R. Thom (a cui appunto Petitot si richiama) sarebbe al contrario necessaria una spazializzazione della semiotica (cf. Picciarelli 1999: 44). Il punto è che non potrebbe essere diversamente: nella prospettiva glossematica, lo abbiamo visto, la semiotica può essere spazializzata solo perché lo spazio stesso è stato semiotizzato. Il paralogismo rilevato da Petitot, per cui la glossematica “afferma […] che l’intuizione spaziale deve saper dar forma alla sintassi, ma immediatamente dopo, per non perdere di vista il significato della categoria globale dei casi, essa deve negare quest’affermazione” (Petitot 1990: 221, cit. in Picciarelli 1999: 44), si scioglie notando che:

1) non è affatto l’intuizione spaziale a dover formare la sintassi, ma la rappresentazione linguistica dello spazio stessa, che si fa sintassi;

2) a rigore, la prospettiva di Petitot si mantiene ancora all’interno dell’opposizione sintassi (forma) vs. semantica (contenuto), laddove la nozione glossematica di forma del contenuto, di fatto, la rifonda completamente (cf. FTL: 57 sgg.; Hjelmslev 1988: 213 sgg.);

3) tutto dipende dalla scelta di quale linguaggio sfruttare come strumento di costruzione (e da quale ontologia intendiamo adottare): se il linguaggio matematico-topologico o il linguaggio naturale. Occupato a reperire il fondamento che dalla sostanza conduce alla forma (in conformità alla direzione del programma morfogenetico), Petitot si fonda esplicitamente su un punto esterno alla forma linguistica stessa, ovvero sullo spazio considerato come supporto astratto e regolato da criteri topologici. L’ipotesi è che lo spazio sia l’intuizione alla base dell’emersione delle forme, dunque anche di quelle linguistiche, e che la linguistica in quanto teoria rientri dunque nella topologia (lo studio dell’emersione delle forme). Il fatto è che, da un punto di vista semiotico, la teoria è un linguaggio (cf. Hjelmslev 1988: 128), e la teoria linguistica è dunque un linguaggio che si fa metalinguaggio. Dunque, anche la topologia sarebbe un linguaggio che semiotizza a suo modo lo spazio stesso. Ecco perché la scelta diviene se scegliere tra due semiotizzazioni diverse dello spazio: a partire da un linguaggio esterno alla lingua o a partire dal metalinguaggio interno, immanente[19], che nell’ipotesi glossematica è appunto la lingua stessa. L’obiettivo primario, in fondo, non è costituire un modello geometrico-spaziale della lingua, ma viceversa di cogliere il modo specifico in cui la lingua geometrizza le rappresentazioni, orientando la percezione, la comprensione e la comunicazione della realtà (ivi incluso il linguaggio).

4. Trasposizione grafica

È proprio la semiotizzazione dello spazio che garantisce la possibilità di passare dal dominio verbale a quello della rappresentazione grafica. Naturalmente, la traduzione da un ordine all’altro non è uniforme: la modellizzazione grafica obbedisce a criteri propri (in casu: geometrici) che si sovrappongono alle indicazioni verbali senza che vi sia coincidenza: alcune lacune vengono colmate, altre indicazioni vengono eluse e, in generale, tra l’organizzazione della sostanza verbale e l’organizzazione della sostanza grafica atte a manifestare una stessa forma linguistica sembra vi sia sempre uno stato di tensione, sebbene tra le due classi di sostanze Hjelmslev postuli una affinità: “Una teoria che si basa sul significato di una categoria grammaticale è sempre schematizzabile” (CdC: 93-94).

Per farci un’idea della questione possiamo concentrarci sugli schemi che in CdC dovrebbero restituire la struttura complessiva di una categoria morfologica:

  • il sistema dei 48 casi della lingua lak (esempio A)
    Esempio A
  • il sistema dei 36 casi della lingua avara (esempio B)
    Esempio B
  • il sistema dei 52 casi del tabassarano (esempio C)
    Esempio C

Tali soluzioni grafiche sintetizzano sinotticamente l’articolazione interna della categoria secondo i principi costitutivi della sua descrizione, generando un effetto “retorico” d’iconismo: nonostante l’aspetto particolarmente artificioso di tali schemi, se essi riescono effettivamente a riprodurre la sistematicità che supponiamo sia propria delle categorie reali, è legittimo supporre che siamo riusciti a coglierne visualmente la natura, secondo la proporzione [sistematicità logica = sistematicità grafica].

Conviene comunque ricordare che lo stato di cose riflesso graficamente è in realtà il prodotto di una serie di operazioni dinamiche, il precipitato di una complessa procedura di scomposizione che viene appunto ricomposta e cristallizzata. Ci pare che le opposizioni “statico vs. dinamico” e “sinottico vs. graduale” si prestino bene a connotare il rapporto tra ordine verbale e ordine grafico: quest’ultimo tipo di soluzione cristallizza staticamente il risultato delle operazioni di analisi e riduzione che, supportate dal corpus di definizioni e regole, intervengono una dopo l’altra come tappe progressive di un algoritmo descrittivo. Quello che queste rappresentazioni non permettono di cogliere è dunque la “generazione”, per via gerarchica, dei “glossemi” (le unità minime che costituiscono i casi e che sono rappresentati dalle lettere greche) a partire dai “tassemi” (i casi incasellati) e dalle “dimensioni” (le classi di tassemi rappresentate dagli assi verticali, orizzontali o trasversali).

Per cogliere questo percorso che porta fino alle unità fondamentali, possiamo scegliere un altro tipo di rappresentazione. Per esempio, potremmo rappresentarci il sistema dei casi della lingua avara (esempio B) in questo modo:

glossemes_combination

Questa rappresentazione permette di cogliere[20] il procedimento di suddivisione della categoria nei suoi costituenti, stabilita dalla successione delle operazioni di scomposizione descritte dalla teoria. Visivamente, si coglie il principio per cui è la categoria, e non i tassemi (casi), ad essere divisa in costituenti; si coglie il fatto che questi sorgono per così dire per combinazione (moltiplicazione) dei glossemi. Si perde, in cambio, il colpo d’occhio sulla distribuzione interna della stessa, l’idea della lingua come un oggetto complesso, globale, sintetico (come class as one), piuttosto che come oggetto analizzato, “dispiegato” secondo la linea imposta dalla procedura (come class as many).

In generale, dunque, la rappresentazione grafica impone certe scelte che di per sé sarebbero esterne alle caratteristiche puramente astratte del modello: per esempio, la distribuzione delle dimensioni come assi verticale, orizzontale e trasversale non è certo implicata nella rispettiva definizione verbale, così come l’aspetto regolare delle caselle della griglia non è richiesto dalla loro analisi. Questi aspetti derivano dalle convenzioni implicite del codice adottato, in questo caso lo spazio geometrizzato, rispetto a cui il modello logico è indifferente: che i casi vengano rappresentati come poligoni regolari, invece che come figure irregolari, può certo facilitare la comprensione da parte di chi osserva lo schema, ma di per sé non influenza il loro statuto logico. Semmai, proprio in virtù di questa indifferenza tra statuto logico e statuto geometrico degli elementi, è possibile ipotizzare che la suddivisione regolare delle caselle rifletta la suddivisione uniforme della zona della categoria, secondo i principi del protocollo glossematico, e così via. Ancora una volta, queste equivalenze ci risultano significative ma 1) esse sono suggerite, e non sempre stabilite esplicitamente dalla teoria stessa, che può fissare un rapporto di trasposizione solo per alcuni elementi (per esempio: le dimensioni come assi, i casi come caselle, i glossemi come coordinate) mentre tutto il resto (l’orientamento degli assi, lunghezza e spessore delle linee, regolarità della griglia, ecc.) viene demandato alle convenzioni e alle necessità intrinseche del codice geometrico utilizzato; 2) inoltre, queste equivalenze si possono stabilire proprio a partire da questa non conformità tra codici; esse cioè assumono senso proprio a partire da una differenza intersemiotica (Badir 2009: 525). Ancora una volta, si può dare trasposizione biunivoca solo tra alcuni settori della sostanza verbale e della sostanza grafica, opportunamente pertinentizzati.

5. Considerazioni conclusive

L’affermazione di Hjelmslev sopra menzionata, relativa alla schematizzabilità di una teoria del significato grammaticale, va dunque interpretata con cautela: innanzitutto ci viene detto che ad essere schematizzabile, ovvero rappresentabile spazialmente secondo un codice geometrico, è la teoria del significato grammaticale, e non direttamente il significato. Ma in realtà, la scommessa implicita è che la teoria sia schematizzabile proprio perché si appoggia sull’intrinseca sistematicità del contenuto grammaticale stesso, a sua volta derivante dalla forma categoriale della lingua: la capacità modellizzante della lingua nei confronti dello spazio deriva dal fatto che la forma della lingua è un principio universale di formazione (FTL: 82) dotato di una sua ontologia “empirica” (Hjelmslev 1991: 129). È dunque la teoria a essere innanzitutto raffigurativa, ma se essa può raffigurare il proprio oggetto, il linguaggio, ciò dipende dal fatto che essa si comporta come un linguaggio: tramite la selezione di tratti pertinenti, essa fornisce una forma all’oggetto trasponendola in una sostanza o in un’altra. Dal punto di vista tecnico, per avvalorare ulteriormente questa interpretazione, si dovrebbe stabilire che il codice grafico-geometrico sia effettivamente una semiotica oppure un sistema simbolico; si potrebbe poi stabilire se i funtivi dei due codici (codice geometrico da una parte e codice verbale dall’altra) siano conversi, ovvero se possano contrarre sostituzione reciproca una volta estratti i connotatori “codice grafico” o “codice verbale”. In effetti, se fosse possibile stabilire che due funtivi (poniamo il concetto di “dimensione” appartenente al codice verbale e l’“asse” nel codice grafico) contraggano sostituzione una volta soppresso il rispettivo connotatore, si potrebbe legittimamente dire che i due funtivi sono “trasposti” (TLR, Def 197), e che realizzano due varianti (verbale e grafica) del medesimo funtivo “dimensione”. Questo rimane però un problema aperto che non possiamo risolvere qui, e di cui ci limitiamo a tracciare una possibile, ipotetica, direzione di ricerca.

In ogni caso, distinguendo e riallacciando tra loro i tre livelli dell’idea di “spazio” identificati sopra, ci sembra che la soluzione proposta da Hjelmslev vada nella stessa direzione di quella di Trier, oltrepassandola. In effetti, dovendo qualificare dal punto di vista epistemologico il ricorso alla categoria di “campo”, Trier optò per la seguente mossa: il “campo lessicale”, disse, è sì una metafora, ma la metafora è essenziale alla natura del linguaggio – essa presiede al suo stesso funzionamento (cf. Trier 1973, cit. in Skrebtsova 2014: 146). A ben vedere, è dunque il funzionamento metaforico del linguaggio, e non propriamente la metafora spaziale, a garantire continuità tra oggetto e descrizione.

Il caso di Hjelmslev è interessante perché “rilancia” la mossa di Trier: introducendo la categoria di spazio all’interno del linguaggio, a livello di significato morfologico, essa legittima vieppiù il cortocircuito, o se vogliamo il rapporto analogico, tra rappresentazione spaziale, rappresentazione linguistica (cognitivo-gnoseologica, propria del linguaggio) e rappresentazione metalinguistica (epistemologica, propria della teoria del linguaggio). In breve, adottando una formula sintetica, potremmo dire che la teoria linguistica spazializza la lingua perché già la lingua spazializza il mondo, inclusa se stessa.

Come si vede, il cortocircuito dello “spazio” deriva dai suoi omologhi: il cortocircuito della “struttura” e il cortocircuito della “lingua” – un circolo virtuoso che caratterizza in profondità l’approccio strutturalista stesso.

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Vachek, J. (1966), “On the interation of the peripheral elements into the system of language”, Travaux linguistique de Prague, 2: 23-37.

Note

[1] O costruisce, dotandosi dell’apparato concettuale necessario a descriverlo come tale.

[2] Uno su tutti, cui abbiamo accennato in Cigana 2016, è quello di considerare lo studio della Categoria dei Casi come un’opera in cui pars (est) pro toto, per cui cioè l’idea di spazio associata alla grammatica vale per la teoria del linguaggio nel suo complesso. Ciò deriva dal fatto che Hjelmslev “sfrutta” per così dire uno studio specifico (dedicato a una delle categorie morfologiche) per trattare di principi la cui portata va ben oltre la morfologia I due ambiti restano distinti: per esempio, il concetto di “dimensione” che viene discusso in CdC non è specifico della categoria casuale ma ha una portata generale, poiché dipende dal modo in cui un sistema si “complessifica”. L’idea di spazio implicata in tale nozione non coincide dunque con il significato spaziale associato alla categoria casuale.

[3] “Le zones phoniques et sémantiques attribuées à un signe ne se terminent donc […] que là où commence le domaine d’un autre. Bien que cette condition ne soit pas suffisante, puisque les chevauchements de signes, homonymies et synonymies partielles, sont chose courante, elle est en tout cas nécessaire. L’unité linguistique est expansionniste […] : seul la résistance des autres la contient. Saussure parle pour cette raison de la « limitation négative » que les signes exercent les uns sur les autres : la « plus exacte caractéristique » d’un élément linguistique « est d’être ce que les autres ne sont pas »” (Ducrot 1968: 47).

[4] Specifichiamo questo per evitare che si riproduca la proporzione sviante “statico : sincronico = dinamico : diacronico”.

[5] Questa interessante considerazione, piuttosto controintuitiva, si coglie bene in SoS: 142 (cf. anche Cigana 2014c).

[6] Per un esempio di discussione terminologica cf. FTL: 41-42.

[7] Uno su tutti si veda la nozione di “parola”, termine che rientra nell’esperienza epilinguistica di ciascun parlante, definita “segno di potenza minima, definita dalla permutazione delle glossematie che entrano in essa” (TLR def 401).

[8] Questo non vale per le scienze umane e per le scienze del linguaggio in particolare – in parte per il loro stesso statuto, in parte per “colpa” collettiva – figurarsi per una teoria particolare.

[9] Per l’argomentazione completa di Hjelmslev, si veda Hjelmslev 1995.

[10] Si registrano cioè fenomeni interni di conversione, sincretismi, difettività, semplificazioni e così via (cf. Hjelmslev 1991: 108).

[11] Non si creda che il primo momento sia puramente sintattico e il secondo puramente semantico: per Hjelmslev si tratta di due aspetti di una stessa medaglia, la forma del contenuto.

[12] Scomponiamo la definizione: “direzione” = funzione di presupposizione fra elementi di sintagmi diversi come tra i morfemi di caso, genere e numero nei due sintagmi di liberi mei; “nessica” = detta di funzione che regge una nessia o enunciato, per esempio quella tra soggetto e predicato; “eteronessuale” = detta di funzione che si stabilisce tra due enunciati differenti, ovvero che oltrepassa sempre i confini di un solo nesso (cf. Hjelmslev 1991: 99 sgg.).

[13] Cf. “Questa specificazione dal fisico all’ontologico risulta sostanzialmente esterna […] e non trova posto nell’oggetto sotto indagine […]” (TLR, N 54).

[14] In questo frammento riecheggia il noto passo di Walter Benjamin sull’essere linguistico della lampada, la “lampada-del-linguaggio” (Benjamin 1995a: 55), anche se, in realtà, l’impostazione a cui i due passaggi si richiamano è piuttosto differente.

[15] Le stesse idee di “forma”, “sistema” o “struttura” funzionano esattamente così: esse vengono concepite dall’atto conoscitivo come costitutive dell’oggetto e, proprio per questo, garantiscono un appiglio “interno all’oggetto su cui la descrizione possa basarsi. Barthes lo spiega molto chiaramente: “La struttura è dunque in realtà un simulacro dell’oggetto, ma un simulacro orientato, interessato, poiché l’oggetto imitato fa apparire qualcosa che restava invisibile o, se si preferisce, inintelligibile nell’oggetto naturale […] il simulacro è l’intelletto aggiunto all’oggetto” (Barthes 2006: 50).

[16] Soggettivo non significa sottoposto all’arbitrio del soggetto, ma dotato di un valore trascendentale: “Il soggetto parlante non sceglie le forme grammaticali secondo le esigenze dello stato di cose oggettivo o reale, a secondo un principio imposto dalla concezione o dall’idea […] attraverso cui egli considera il fatto oggettivo” (CdC: 120). Ora, le idee o concezioni depositate nella lingua sono “oggettive” per il soggetto stesso.

[17] Sul semantismo delle categorie morfologiche, si veda soprattutto SoS: 90 sgg.

[18] Su questo cf. Cigana 2016.

[19] Non è un caso se Petitot, giusto al contrario, è indotto ad auspicarsi un approccio trascendente.

[20] Ci si scuserà il disordine che risulta dalle linee di combinazione. In effetti, uno schema “ordinato” facilita le operazioni mentali di riconoscimento: la mente cioè può “scommettere” in anticipo sulla distribuzione degli elementi anche se non verificata dall’occhio. Questa viene dunque valutata come vero e proprio elemento informativo. Il “colpo d’occhio” è dunque un’operazione interpretativa che risulta da una promessa di senso.

How to cite this post

Cigana, Lorenzo. 2016. Aree, volumi e spazi: la geometria linguistica di Hjelmslev. History and Philosophy of the Language Sciences. http://hiphilangsci.net/2016/03/10/aree-volumi-e-spazi-la-geometria-linguistica-di-hjelmslev


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